RUBRICA: MALCOSTUME E SOCIETÀ n° 36 - OTTOBRE 2008
PERCHÉ IN ITALIA IL MERITO VA A CHI NON SE LO MERITA

da Master Meeting OTTOBRE 2008

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Nel nostro Paese manca la cultura del valore individuale: gli studenti bocciati ricorrono al Tar. Nelle aziende il cambio generazionale è una chimera, mentre i giovani capaci si vedono scalzati dai soliti raccomandati. E, se la scuola recita il mea culpa, neanche l’ istituzione italiana per eccellenza, la famiglia, è senza peccato...



L’Italia ha le spalle al muro: è un paese che fatica a crescere, con una classe dirigenziale vecchia e manager in alcuni casi poco preparati. Roger Abravanel, conosciuto come il Signor Mckinsey, ha individuato la causa: la scarsa cultura del merito. «Non sono stato io a inventare il concetto di meritocrazia, la parola è stata coniata da Micheal Young, riformista della sinistra britannica, mentre il primo esempio nella storia è di J.B. Conant, il preside della Harvard che nel 1933 introdusse un sistema di test standard come strumento di selezione degli strumenti”, racconta Abravanel. «L’Italia non sa realizzare un progetto e ciò influenza negativamente l’economia e la società, perché non esiste un sistema di valori che promuova l’eccellenza.
Pensiamo alle pari opportunità: si sono fermate a Roma. Nel Sud esistono pessime scuole e non c’è possibilità di crescere. E le donne sono ancora delle mosche bianche nei ruoli dirigenziali. Anche negli Usa il processo di integrazione femminile negli ambienti di lavoro è incompleto, però si sta facendo molto».
Abravanel individua quattro soluzioni per combattere questa situazione: la prima la definisce un’iniezione di merito nella pubblica amministrazione, per avere servizi migliori. La seconda è il potenziamento della qualità delle scuole, magari introducendo test per studenti e insegnanti per selezionare le eccellenze. Poi una Authority per sbloccare l’economia e una affermative action per portare le migliori donne italiane nei consigli di amministrazione. Proposte queste che da molti sono viste come utopiche, ma che dall’uscita del libro Meritocrazia hanno già fatto discutere numerosi italiani. «Da poco si sono conclusi gli esami di maturità e le madri di alcuni bocciati si sono già rivolte al Tar. E alla fine saranno tutti promossi.
Così come ricordo alcuni colleghi professori all’università che facevano passare a tutti gli esami per pigrizia. Bisogna chiedersi come sconfiggere la cultura di quelle madri che si sono rivolte al Tar?», commenta Renato Mannheimer, giornalista del Corriere della Sera e presidente di Ispo. «Intravedo due grossi problemi: pensare al risultato finale credo sia corretto, ma definire il merito degli altri non è facile così come la burocrazia ha ancora un potere troppo frenante. Forse ha ragione Abravanel, quando sostiene che il vero cambiamento si possa fare attraverso le donne». Sotto tiro del professore ordinario di Politica Economica dell’Università Cattolica, Giacomo Vaciago, le madri italiane. «La nostra scuola fotografa la capacità della mamma di educare i figli. Non esiste altro paese al mondo in cui la scuola abbia delegato così tanto alla famiglia», sostiene Vaciago. «I sistemi meritocratici costano in termini economici e affettivi. Non è il migliore che vince, ma tutti i migliori. Ci vuole competitività, perché sottostress si producono ottimi risultati. Invece all’università italiana, gli studenti danno gli esami più volte l’anno e quando lo desiderano. Neanche in Africa. Vorrei una nota con scritto: da domani si torna normali».
Una visione più positiva è quella di Elio Catania, presidente di Atm – Azienda Trasporti Milanese, in passato di Ferrovie dello Stato e importante manager IBM. «Quando sono entrato in IBM avevo 23 anni. Il primo giorno di lavoro mi hanno dato un codice etico in cui mi si chiedeva di rispettare i clienti, i colleghi, di vivere per l’eccellenza... e poi gli obiettivi per i prossimi 3 mesi», racconta Catania. «Mi resi conto che l’intera società era disegnata intorno al merito e questa logica entrò nelle mie vene. Valutare le capacità è una cosa ampia, bisogna considerare le qualità professionali, ma anche quelle saper interagire e integrarsi».
Nella pubblica amministrazione la musica però è diversa. «Ce la faremo a cambiare? Ci vuole una leadership che ci creda e un sistema di valori forte e condiviso. Nel pubblico abbiamo ancora tanto da fare. In Atm, però, sto incominciando a vedere dei miglioramenti: l’azienda risponde e la gente ha una disperata voglia di vedere premiata la propria professionalità».
E sul ruolo cardine delle donne evidenziato da Roger Abravanel, Marina Salamon, imprenditrice impegnata nel sociale, racconta il suo punto di vista: «Siamo persone nel lavoro come nella vita. Credo che il problema vero sia che non contano le impostazioni formali, ma la passione che si mette nei progetti. L’Italia, purtroppo, è prematuramente vecchia e resiste a qualsiasi cambiamento», commenta la Salamon. «Vedo però buone piccole e medie imprese, grandi imprese magnifiche. Fiat ci ha stupito. Montezemolo che sta facendo un ottimo lavoro, nonostante il cognome impegnativo, ha messo Marchionne e lo ha lasciato lavorare. E ha dato la stessa libertà a Emma Marcegaglia». E se pensa alla figura delle donne, da donna sostiene: «non credo nella cultura post femminista.
Sono stata all’inizio un capo sbagliato, poi ho imparato: facendo figli, prendendone in affido, lavorando nel no profit. Credo nelle giovani donne dirigenti. E poi le leggi dell’economia implicano una maggior giustizia: ci pensa la storia a sistemare gli incapaci».



Valentina Rorato