RUBRICA "RISORSA UOMO" n° 42 MARZO 2010
L’incertezza: maestra di vita e di management

da Master Meeting MARZO 2010

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Si è abituati a pensare che la produttività sia figlia dell’ordine e della capacità di porsi obiettivi ben determinati. Ma esiste anche una produttività che nasce dal saper stare proficuamente nel caos e nel “non fare”, lasciando che gli eventi seguano il loro corso, senza la pretesa di voler fissare il punto di arrivo. Si chiama negative capability ed è un approccio formativo, oggi, applicato con successo anche alla leadership.
In una lettera del 1817 indirizzata ai fratelli George e Thomas, il poeta inglese John Keats spiegava il suo pensiero riguardo alla negative capability, ovvero la capacità dei grandi uomini di riuscire a stare nell’incertezza, senza voler a tutti costi comprendere ragioni o trovare soluzioni. In questo stato di accettazione dell’indeterminatezza, secondo Keats, si attiverebbe un tipo di intelligenza intuitiva, assai più proficua di quella razionale, in grado di allargare gli orizzonti conoscitivi, praticamente all’infinito. Ed è proprio restando in vigile attesa in questa sorta di sospensione del pensiero logico, che si può pervenire alla soluzione più giusta senza fatica, privilegiando un agire che nasce da un apparente vuoto dove non c’è consequenzialità tra mezzo e fine e dove, proprio per questo, si possono cogliere aspetti delle situazioni che altrimenti non verrebbero notati. Un pensiero che oggi viene ripreso dalla psicologia e dal coaching aziendale accanto ad altre importanti scuole di pensiero, incentrate sulla positive capability, la capacità di concentrarsi su un obiettivo (orientamento al risultato) e di mettere in atto, per raggiungerlo, una strategia mirata, studiata in base alle conoscenze specialistiche che si posseggono.
Abbiamo interpellato Giorgio Guainazzi e Roberto Re, due tra i più noti esperti nella psicologia del cambiamento e del self empowerment, per capire se, e come, i due approcci, apparentemente in antitesi, possano combinarsi nell’alchimia della leadership.

Imparare dalla capacità negativa


Per Keats l’ignoto è una porta su una realtà infinitamente più ricca e imprevedibile di quella che normalmente percepiamo attraverso il filtro delle nostre convinzioni. Eppure, alla maggior parte delle persone l’incertezza fa paura, in alcuni casi addirittura paralizza. Abbiamo chiesto allo psicanalista e formatore Giorgio Guainazzi da dove nasce, e come si può vincere, questa paura. «L’incertezza spaventa perché pone l’uomo di fronte a un fatto esistenziale dalla portata alquanto drammatica: Jung diceva “non c’è nulla di certo”. Ecco che, quindi, misurarsi con l’incertezza significa, in ultima istanza, misurarsi con la realtà. La sicurezza che tutti noi cerchiamo disperatamente è solo un’illusione, una finzione che adottiamo per nasconderci il fatto che nulla esiste».

Come e quando, allora, può diventare positiva?


«Con l’accettazione che è apprendimento dell’incertezza. Glielo spiego con un esempio: quando un aereo in difficoltà ha troppo poco carburante per tornare indietro – ha varcato, cioè, il proprio point of no return – può solo andare avanti. Questa è senza dubbio una situazione limite che non dà adito ad alcuna alternativa. Il problema è che nel quotidiano è molto difficile accettare totalmente l’incertezza. Solo i grandi uomini – come appunto diceva Keats – ci riescono e, per me, i grandi uomini sono i mistici forse gli unici in grado di accogliere il mistero senza riserve».

Seneca diceva “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. È più importante sapere cosa si vuole o perché lo si vuole?


«È un po’ una tautologia. L’uomo che non ha una stella polare, finisce per fare qualcosa in cui non crede e, anche quando gli va bene, non è mai soddisfatto. Credo che un buon leader dovrebbe innanzitutto sapere profondamente ciò che vuole. Il resto è ininfluente. C’è un detto zen che recita “quando una freccia ti colpisce è importante curare la ferita, non capire chi l’abbia scoccata o perché”».

Il cambiamento fa parte della crescita personale, ma è spesso fonte di stress e paura. Come gestirlo al meglio?


«Il cambiamento significa distacco simbolico dalla madre. Quando si affronta una situazione nuova, si rivive il trauma di questa separazione originaria. Il disagio che ne deriva si supera solo se si possiede una buona capacità introspettiva, ovvero se si conoscono bene i propri limiti e le proprie risorse».

E come si acquisisce una buona capacità introspettiva?


«Per esempio con la psicoanalisi o la formazione di gruppo, un potente strumento auto conoscitivo che consiglierei a tutti i manager, soprattutto a quelli in difficoltà, ma anche attraverso altri strumenti come la meditazione trascendentale».

Quali benefici comporta la formazione di gruppo ai fini della leadership?


«Il gruppo si pone come “terzo elemento” della relazione terapeutica, permettendo ai partecipanti di osservare e comprendere meglio i propri schemi relazionali in un contesto più complesso e vicino al quotidiano rispetto a quello che si crea con il singolo terapeuta. L’osservazione delle interazioni altrui, e di quelle del gruppo nel suo insieme, permette inoltre di derivare importanti inferenze sui meccanismi di ruolo. Il gruppo diventa così il microcosmo della propria realtà quotidiana e il manager che ne comprende a fondo le dinamiche, sarà in grado di comprendere meglio anche le esigenze profonde del suo team aziendale. Nel gruppo si impara inoltre a lavorare in squadra. Non è un caso che il concetto di team work sia nato proprio in Inghilterra, isola di navigatori. Se non c’è coesione e armonia tra i marinai, la barca va a fondo. Si dice anche che sulla nave, la gente è un solo uomo e il capitano è Dio».

Qual è la dote principale che dovrebbe avere un buon leader?


«La rappresentatività: un leader deve poter essere la voce delle persone che rappresenta, il che significa che deve essere in grado di esprimere le istanze più profonde della sua squadra. Si tratta di un’arma a doppio taglio, nel senso che non è detto che le parti rappresentate dal leader siano quelle migliori. Anche Hitler era un grande leader, ma non rappresentava di certo gli istinti buoni della Germania. Il problema è quindi di natura etica. Un buon manager dovrebbe avere come riferimento non solo il target aziendale, ma anche un mondo di valori positivi. Il guaio è che non sempre i due obiettivi coincidono».

E la trappola più insidiosa che dovrebbe evitare?


«L’arroganza, che inevitabilmente porta alla chiusura. Il capo che non comunica più con i suoi uomini perde la capacità di rappresentarli e, alla fine, manca anche l'obiettivo, proprio come succede al comandante Quegg nel film L’ammutinamento del Caine».

Come bisogna comportarsi davanti a un insuccesso?


«Bisogna vederlo come un’occasione. In questo caso l’errore diventa una guida preziosa per la crescita, un passo in avanti verso il successo».

Un’autostima elevata è sempre un vantaggio o può essere anche un rischio per un leader?


«È un rischio quando degenera in presunzione e cecità».

Un leader storico da cui bisognerebbe, secondo lei, trarre insegnamento?


«Gandhi e, prima ancora, Gesù Cristo».

Manuela Mancini